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Africa: così si misura l'efficacia degli aiuti

di Chiara Somajni

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22 aprile 2009

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Non è l'unico strumento. Negli ultimi decenni alcune ong hanno aggiornato il proprio modus operandi con un approccio basato sulla promozione dei diritti piuttosto che sulla fornitura di beni o servizi. Quest'ultima infatti rischia nel tempo di risultare un'interferenza piuttosto che un aiuto. Se per esempio costruisco una pompa per l'acqua, basta che si rompa una guarnizione perché non funzioni più; ben altro impatto si avrà aiutando quella stessa comunità a organizzarsi in modo tale da ottenere dallo Stato sia le pompe (o un edificio scolastico, o delle medicine) che il servizio di manutenzione (o gli insegnanti, oppure l'effettivo diritto d'accesso a una struttura medica); evitando inoltre che in caso di guasto ci si debba di nuovo rivolgere al paternalismo di una qualche organizzazione internazionale.
L'approccio basato sui diritti è più difficile da monitorare (e la valutazione d'impatto è utile tanto ai donatori quanto ai beneficiari). Un conto infatti è quantificare la costruzione di una scuola, altra cosa valutare il grado di empowerment conquistato da una comunità locale: nel primo caso basta una fotografia, nel secondo devo imparare a chiedere ai diretti interessati.
È quanto fanno oggi le ong più avanzate. Le loro strategie sono derivate dalle priorità espresse direttamente dal basso, dalle comunità, con le quali viene stretto un patto di partnership. Spesso coalizzandosi per non disperdere le energie, cercano di svolgere un lavoro sempre più politico: a tutti i livelli, dalla piccola associazione di donne alle Nazioni Unite.
Anche come sostenitori individuali si può crescere: pretendendo il rispetto degli impegni presi dal proprio Paese (lo 0,7 per cento del Pil entro il 2015: l'Italia ne è ben lontana) e incominciando a chiedersi non solo se gli aiuti raggiungano effettivamente le comunità più bisognose, ma come.

22 aprile 2009
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